Viaggio a Vienna, 1971 – Io e mia madre per trovare il male

Nella foto scattata ieri io e mia madre stiamo per salire sul set della sezione produzioni video di un’importante casa editrice, intervista a lei e me (nelle prossime settimane pubblicherò il risultato montato, su Youtube).

10150529_641501915899722_399973579_n

Stavo mettendo sul fuoco la pentola del riso e la padella per friggere, quando suonò il telefono.
Guardai l’orologio. Undici e venti. Chi poteva essere? Non avevamo niente in programma quel giorno in Associazione, e di solito gli amici arrivavano nel pomeriggio, e restavano la sera e a volte parte della notte. Nel nostro giro eravamo tutti un po’ nottambuli.
“Pronto.”
“Renzo?”
“Sì, sono io. Chi sei? Paolo?”
Avevo riconosciuto la voce.
Paolo Mazzantini era un caro amico, che avevo conosciuto durante i miei due anni di servizio civile, che avevo scelto come alternativa al servizio militare in quanto obiettore di coscienza.
L’Ente per il quale prestavo servizio di volontariato – la Pubblica Assistenza Città di Bologna – aveva messo a disposizione un appartamento per gli obiettori, e Paolo era diventato mio compagno di stanza.
Di giorno guidavo il mini bus accompagnando in giro i disabili, e la sera preparavo la cena insieme a Paolo, che era vegetariano e mi fece conoscere le bistecche di soia.
Le bolliva qualche minuto nell’acqua, senza aggiungere nessun condimento, poi le strizzava un minimo e se le mangiava così, alla brutta, perché gli piacevano comunque. Da lui presi anch’io l’abitudine di prepararle in quel modo e anzi le trovo ancora gradevoli “al naturale”, pur cucinandole per bene con gli ingredienti e le tecniche giuste quando ho ospiti a pranzo o cena.
“Sì, sono io, Paolo.”
“Oh, ciao, che piacere sentirti! Dove sei? Di passaggio a Bologna? Posso invitarti per una spaghettata?”
Ci fu qualche secondo di silenzio.
“No, no, sono a Firenze. Non ho intenzione di venire a Bologna. Non ho tempo.”
Ah, pensai. “Peccato, sarebbe stata una bella serata,” dissi a voce alta.
Un altro silenzio, questa volta ancora più lungo.
C’era qualcosa che non andava in questa telefonata, qualcosa di sbagliato. Forse c’era qualcosa di brutto e non sapeva come dirmelo… magari stava soffrendo per una malattia, un momento difficile economicamente, o un incidente.
“Dimmi, c’è qualche cattiva notizia? Hai un problema? Forse posso aiutarti in qualche modo,” aggiunsi, ormai preoccupato.
Ma la voce che rispose non era sofferente o commossa: era ostile, carica di una rabbia repressa e gelida.
“Certo che da te proprio non me l’aspettavo,” disse – lentamente, deliberatamente.
Rimasi un attimo interdetto, con il telefono cordless in mano, e la mente che correva disperatamente cercando di localizzare il luogo e il momento in cui avevo fatto il danno.

Ma di quale azione si trattava? Cos’avevo fatto? Dall’ultima volta che ci eravamo sentiti non era successo proprio niente, e ci eravamo lasciati da buoni amici, come al solito.
Riaffiorai dalla mia profonda perplessità improvvisamente, boccheggiando. “Ma, ma… scusa, di cosa stai parlando?”
“Non sapevo che fossi figlio di una nazista,” rispose la voce di Paolo, che ormai era quasi irriconoscibile.
Sentii il sangue rifluire alla faccia. Ma che scherzo era quello?
“Ma cosa dici? Di cosa stai parlando?”
Avevo l’impressione che la stanza fosse diventata improvvisamente calda, e mi accorsi che le ginocchia non mi sorreggevano più bene. Dovevo andare a sedermi al più presto.
Confortato dal contatto familiare della seggiolina da regista e del tavolino da bar di marmo, dove mi ero seduto tante volte a parlare con i visitatori dell’Associazione, ripresi un certo controllo delle mie facoltà mentali.
“Guarda Paolo, so per certo che mia madre non è nazista e non lo è mai stata. E’ vero che è tedesca, ma durante la guerra era solo una bambina, e in seguito non ha mai espresso simpatie per il nazismo, anzi.”
“Sì, va bene, allora diciamo nipote di una nazista. La madre di tua madre. Su questo non c’è proprio nessun dubbio: l’ha dichiarato pubblicamente, anzi, ha scritto un libro intero sull’argomento.”
Ricaddi nel buio più assoluto. “Come, scusa? Quale libro?”
“Non mi dire che non ne sapevi niente,” disse lui con voce tagliente. “E’ impossibile. Non fingere, non mi convinci. Sei un ipocrita schifoso.”
La protesta per quella profonda ingiustizia mi ribolliva ormai dentro, ed esplose con un’esclamazione incredula che non era proprio una domanda, anche se ne aveva la forma esteriore.
“Ma cosa stai dicendo? Ma è roba da pazzi! Cosa dovrei sapere? Spiegati meglio, perché non ci capisco proprio niente… Sì, so che mia madre ha scritto articoli di giornale, forse anche qualche breve storia, ma non sono al corrente del suo lavoro. Non ci vediamo e non ci sentiamo da un sacco di tempo, lo sai… da quando sono andato a stare nel Tempio degli Hare Krishna per un paio d’anni. Si è arrabbiata con me per quella scelta così drastica e non me l’ha mai perdonata.”
Andrea apparve sulla porta della cucina, un po’ scarmigliato e in mutande, e con l’aria preoccupata. Mi aveva sentito gridare al telefono e si era evidentemente spaventato. Lo guardai, e mi resi conto che la mia faccia era contratta in un cipiglio rabbioso. Feci uno sforzo deliberato per rilassarla.
Ripresi in mano la situazione. “Senti, Paolo, non so di cosa stai parlando. Non sono al corrente di nessun libro. So ben poco di quello che fa mia madre e addirittura niente di quello che fa o che ha fatto mia nonna. Cioè, so quello che fa o faceva la madre di mio padre, ma la madre di mia madre non me la ricordo proprio per niente, e non ne ho mai sentito parlare.”
“Va bene, Renzo. Diciamo che non lo sapevi. Ma questo non cambia molto.”
“Come, non cambia molto?!” era più un urlo che una domanda. Dovevo assolutamente calmarmi, stavo perdendo il controllo.
Il silenzio di Paolo si prolungò per quello che sembrava un tempo interminabile, in cui potevo sentire distintamente il suono del mio sangue che mi pulsava nelle tempie.
Finalmente parlò di nuovo, e per l’ultima volta. “Leggi il libro. E’ uscito a maggio e l’ho trovato settimana scorsa in libreria. Ha fatto sensazione tra i miei amici. Si intitola Il rogo di Berlino. Leggilo.”
La comunicazione si interruppe di scatto. Ebbi l’improvvisa certezza che non avrei più rivisto o risentito Paolo – non solo non mi avrebbe mai più telefonato, ma probabilmente non avrebbe nemmeno risposto alle mie chiamate.
Spensi il telefono cordless e rimasi a guardare esterrefatto l’apparecchio per qualche secondo. Andrea si avvicinò, trascinando una sedia fino al tavolino accanto a me.
Alzai gli occhi sulla sua espressione addolorata, impaurita, incerta. Sapeva che non andavo d’accordo con mia madre, ma non aveva capito esattamente qual era il problema questa volta.
Feci uno sforzo per mostrarmi calmo e sicuro di me stesso.
Mentre Andrea faceva la doccia e si vestiva, io finii di preparare riso e polpette, ma il piacere della cucina e del pasto erano diventati freddi e lontani. Non vedevo l’ora di uscire per correre in una libreria e chiarire quel tremendo mistero: era come se un parente mi fosse stato ammazzato a fucilate sulla piazza del paese, e io fossi stato l’ultimo ad esserne informato.
Il commesso della libreria sembrava sapere benissimo di cosa stavo parlando.
“Il rogo di Berlino, Helga Schneider, sì, ce l’abbiamo,” disse con tono confidente. “Pubblicato dall’Adelphi. Sta vendendo molto bene, anche.”
Mi indicò un tavolo carico di libri – quasi tutti impilati, con qualche copia disposta in modo da mostrare la copertina con titolo e autore.
“Grazie,” riuscii a dire. Mi avvicinai al tavolo, scosso da violente emozioni. Era vero, era tutto vero. Il libro era lì, davanti ai miei occhi, con il nome di mia madre bello evidente sulla copertina, sopra la fotografia di quell’epoca spaventosa.
L’immagine era piuttosto grande, in bianco e nero, su fondo rosso mattone spento. Tre donne vestite di nero che camminavano per strada tra le macerie di alti edifici distrutti. Una di loro, che procedeva davanti alle altre due, sembrava tirare un carrettino a due ruote munito di stanghe. Non si capiva bene che tipo di veicolo fosse, ma la scena aveva un qualcosa di lugubre, e mi venne il sospetto che quella specie di barca coperta posata sulle stanghe del carretto fosse una piccola bara improvvisata, in cui veniva trasportato il cadavere di un bambino.
Comunque il titolo del libro era lì, bello chiaro, in lettere tutte maiuscole. IL ROGO DI BERLINO.
Fino a quel momento avevo sperato che Paolo si fosse sbagliato, o fosse improvvisamente impazzito, o avesse voluto farmi qualche scherzo di pessimo gusto. E invece no. Era vero, era tutto vero.
Sentivo di avere i capelli ritti: paura, orrore, rabbia, umiliazione, tradimento, frustrazione urlavano in fondo alla mia mente per far tacere l’ammirazione, la gioia, l’orgoglio di vedere che mia madre aveva ottenuto un importante successo nella sua carriera e nella passione della sua vita – la pubblicazione di un romanzo con una grossa casa editrice.
Per un attimo immaginai la sua soddisfazione, pensando a tutti quegli anni in cui si era data da fare per realizzare il suo sogno, contro tutti e contro tutto. Ma a che prezzo era stato raggiunto quel successo? Cosa aveva sacrificato?
Era stata abbandonata, come si era lamentata l’ultima volta che l’avevo sentita per telefono, oppure aveva abbandonato? Aveva messo in piazza la propria anima per il pubblico dei lettori, confessando ciò che non aveva mai saputo confessare a nessun altro, mettendo a nudo la sofferenza delle proprie radici mozzate.
E perché aveva tenuto me – suo unico figlio – completamente all’oscuro? Non solo sulla notizia importantissima della pubblicazione del suo primo libro di rilievo, ma addirittura sull’intera storia di famiglia su cui il romanzo era basato – una storia che apparteneva di diritto anche a me, e sulla quale avrei dovuto avere qualche voce in capitolo.
Mi riguardava troppo da vicino, per poter sorvolare sul fatto di non essere stato consultato in merito.
Il romanzo… ma era poi tale? La storia era tutta vera? C’era forse qualcosa di inventato a cui potermi aggrappare, come alla proverbiale pagliuzza, per non essere trascinato via dal fiume in piena di quegli eventi tremendi?
Sembrava di no. Da quello che aveva detto Paolo al telefono, era evidente che mia madre non aveva fatto alcun mistero sull’autenticità della storia, sulla vera identità dei personaggi – che non era stata nemmeno velata da qualche modifica ai nomi o agli eventi.
Un pensiero orrendo tuonò nella mia mente, fulminandomi con un lampo di luce straziante, un commento che mai e poi mai avrei pensato potesse venire applicato a me o alla mia famiglia.
“Sbatti il mostro in prima pagina,” mormorai sottovoce tra me e me, con amarezza e rancore.
Accanto a me, una signora di mezz’età, vestita molto sobriamente – probabilmente una professoressa di liceo, ne aveva tutta l’aria – alzò gli occhi dal volume che stava esaminando e mi guardò sospettosa. Mi aveva sentito sussurrare? Probabilmente sì.
Non ebbi il coraggio di restituirle l’occhiata inquisitrice. Presi in mano una copia del libro, tenendola con due dita come se scottasse, e andai alla cassa per pagare.
Il libro iniziava nella primavera del 1971.
E io ero presente già nella prima pagina.

dc90f8ffcfd144dd57810d50d1f56bed_w_h_mw650_mh

 

Salimmo in fretta le scale del vecchio palazzo viennese e il cuore mi batteva così forte che non fui capace di suonare il campanello. Lo fece Renzo, mio figlio.
L’avevo cercata a lungo e ora, a distanza di trent’anni da quando mi aveva abbandonata in una Berlino già molto scossa dalla guerra, avevo ritrovato mia madre; viveva a Vienna, nella sua città.
lo, invece, nata in Polonia, vissuta nella Germania nazista e rimpatriata in Austria (paese natio anche di mio padre), ormai mi ero stabilita in Italia; avevo un marito e un figlio.
Quando la porta si aprì, vidi una donna che mi somigliava in modo impressionante. L’abbracciai piangendo, sopraffatta da un’incredula felicità e pronta a comprendere, a perdonare, a mettere una pietra sul passato.
Lei iniziò subito a parlare, a parlare di sé. Nessun tentativo di giustificare il suo abbandono, nessuna spiegazione.
Raccontava. Molti anni addietro l’avevano arrestata nel campo di concentramento di Birkenau, dove faceva la guardiana. Vestiva un’impeccabile uniforme «che le stava così bene». Non erano ancora passati venti minuti che già apriva un maledetto armadio per mostrarmi, nostalgica, quella stessa uniforme. «Perché non te la provi? Mi piacerebbe vedertela addosso». Non la provai, ero confusa e turbata. Ma ciò che disse subito dopo fu anche più grave dell’aver rinnegato il proprio ruolo di madre. «Sono stata condannata dal Tribunale di Norimberga a sei anni di carcere come criminale di guerra, ma ormai non ha più nessuna importanza. Col nazismo ero qualcuno, dopo non sono stata più niente ».
Mi raggelò. E se lei, nel 1941, aveva deciso di non volere questa figlia, ora ero io a non volere questa madre! lo e mio figlio tornammo in Italia col primo treno. Renzo piangeva deluso. Come avrei potuto spiegargli il motivo per cui io non avevo trovato una madre né lui una nonna? Aveva solo cinque anni.
Perdetti mia madre per la seconda volta.
Non so se sia ancora viva. Ogni tanto qualcuno mi chiede se l’ho perdonata”.

Cos’accadde dopo? Come ho vissuto fino ad oggi l’ho raccontato attraverso figure retoriche che implicano un trasferimento di significato in tre romanzi di una saga, in cui la mia protagonista ha preso il nome di Stefania:

http://goo.gl/733Zz

1004980_619826941392660_1254898156_n

Buona lettura e a presto, con il video dell’intervista.