Lasciami andare, madre. Ritratto dell’umanità a tinte fosche. | Il lettore comune

Lasciami andare, madre. Ritratto dell’umanità a tinte fosche.

Non c’è pace nel mondo. L’adagio funziona sempre, in qualsiasi posto della terra ci si trovi, qualsiasi lingua si parli, in qualsiasi momento storico ci si voglia trasportare e il motivo è molto semplice, quasi banale, ed è il fatto che un gruppo di individui ritiene di essere superiore ad un altro gruppo e non importa che ci sia una motivazione supportata da prove inconfutabili, è sufficiente convincersene. E non è nemmeno necessario scomodare la “grande storia” per affermarlo, basta la quotidianità con i suoi episodi di vessazione che si susseguono a ritmo incalzante in tutti i luoghi, in tutti gli ambienti, in tutte le classi sociali, a tutte le età.

Ogni categoria di fatto più debole lo sa bene, gli anziani, i bambini e le donne che ancora nel XXI secolo subiscono la “supremazia” della forza fisica che si afferma nei quotidiani episodi di abusi sessuali e di violenza domestica. Ma si tratta di “consuetudini” che risalgono a tempi lontanissimi e che si danno quasi per scontate: fin dall’antichità ad esempio le donne sono annoverate tra gli elementi del bottino di guerra e in tempi recenti se ne trova conferma nella realizzazione dei “campi di stupro”, allestiti in Bosnia con l’intento di applicare il cosiddetto stupro etnico, ovvero umiliare il proprio nemico ingravidando le sue donne. Perversione a parte è sconcertante che ancora si debba lottare per il diritto elementare di essere riconosciuto come individuo e non come oggetto, proprietà di qualcuno. Naturalmente perfino nei campi di concentramento era stato predisposto un postribolo ad uso e consumo di alcuni prigionieri tedeschi e concesso in premio anche alle SS. Insomma cambiano i tempi, ma le azioni sembrano ripetersi all’infinito.
«Ci voleva disciplina, capisci? Quelle puttane ebree dovevano capire dove si trovavano e soprattutto perché. E questo si otteneva con un solo mezzo: disciplina, dura e inflessibile disciplina. Ecco il segreto per tenere in pugno un campo».
Ti guardo, madre, e provo un dissidio terribile, lacerante: l’istintiva attrazione per il mio stesso sangue e l’irrevocabile rifiuto per ciò che sei stata – per ciò che ancora sei.
(Helga Schneider, Lasciami andare, madre)
La violenza indiscriminata porta al parossismo, a un vero e proprio delirio di onnipotenza e gli esempi in questo caso si perdono, innumerevoli, tra gli avvenimenti che hanno segnato la storia dell’umanità, dallo sterminio degli ebrei ai massacri nella ex Jugoslavia, al genocidio ruandese e così via. Tutto questo per fare “pulizia”, etnica, religiosa, in sostanza a quanto pare, lo scopo è sempre stato quello di rendere il mondo un posto migliore. D’altra parte ogni volta che è stata massacrata una fetta di umanità si è sempre cercato un avallo imprescindibile, ovvero quello della mano divina, “Dio lo vuole” è una di quelle frasi che non manca mai sul blocco note dei persecutori, e così si è andati avanti nei secoli e poi nei millenni.
Di fronte a tanta violenza si mette in azione la pietosa macchina del perdono, ma il compito del perdono richiede una vocazione di ampia portata e spesso o forse senza eccezione, non è nemmeno realizzabile. Quando una fiamma viva ci brucia con fervore è praticamente impossibile perdonare, se non a parole, mentre dentro il fuoco continua a divampare, se invece la passione è spenta allora il perdono è inutile perché non c’è più la molla che spinge a conferirgli significato.
Si può perdonare una madre che abbandona i propri figli per fare l’aguzzina? (Sì perché anche le donne danno il loro bel contributo di ferocia). Per arruolarsi nelle SS? Per andare a compiere il proprio dovere di fedeltà al Reich a Birkenau e a Ravensbrück, uno dei campi di sterminio più abietti, sede di sperimentazioni inverosimili e inenarrabili? Sembra che con i consanguinei il percorso dell’indulgenza sia quasi obbligato, ma è vera pietà o il solito condizionamento ipocrita che ci sovrasta? Del resto, appena nati abbiamo già due tare pesanti addosso, il debito pubblico e il senso di colpa.
Mi distraggo. Il mio pensiero corre ancora una volta alle vittime, alle tante storie che conosco, che ho letto o che mi sono state raccontate. Penso anche, madre, che solo odiandoti sarei finalmente capace di strapparmi dalle tue radici. Ma non posso. Non ci riesco.
(Helga Schneider, Lasciami andare, madre)
A volte ci si restringe nel cerchio ottuso della propria codardia e ci si illude che la bruttura che abbiamo dentro provenga dall’esterno, certo in situazioni estreme come nel caso dell’olocausto o dell’inquisizione è stato comodo per molti sottolineare che si obbediva a degli ordini, a delle regole, ma la natura un po’ sadica che ci connota, per quanto non vogliamo mai guardarla in faccia ed accettarla, non necessita di palcoscenici così eclatanti come i campi di sterminio o i roghi fumosi, in forma più blanda si ritrova anche in quell’accanimento voyeristico che spinge tutti a sbirciare avidamente di fronte ad un incidente mortale o nell’attaccamento morboso alle vittime della cronaca che muovono così tanti sconosciuti a partecipare ai funerali di altrettanti perfetti sconosciuti o ad applaudire ed osannare presunti assassini che riprendono la libertà grazie ad avvocati di grido, e ad assorbire il dolore di amici e parenti di giovani vittime assassinate, spacciando tali comportamenti per ciò che non sono mai, ovvero compassione e pietà umana. In verità una vera partecipazione al dolore sarebbe muta e invisibile, mentre tutto ciò che si ostenta non può che rientrare nell’ampia sfera della vanità.
«Sono innocente. Io non ho colpe. Ho solo obbedito agli ordini, come tutti. Tutti hanno solo obbedito agli ordini. Tutti i miei camerati e tutti quanti i tedeschi, perché lo si vuole negare? Perfino i bambini hanno obbedito ciecamente ai loro insegnanti, attenendosi rigorosamente agli ordini superiori».
«E sappi inoltre» prosegue fiera «che fui io stessa a farmi avanti per essere assegnata a uno di quei campi – e vuoi sapere perché? Perché ci credevo. Credevo nella missione della Germania: liberare l’Europa da quella… da quella razza ripugnante».
(Helga Schneider, Lasciami andare, madre)
Helga Schneider, una scrittrice tedesca, ma italiana d’adozione, racconta la sua storia di figlia di una donna che decide di abbandonare la famiglia per arruolarsi tra le ausiliarie delle SS e nel suo libro Lasciami andare, madre, narra proprio del doloroso incontro con la madre ormai molto anziana e del suo non-rapporto con lei, ma malgrado una vita vissuta a distanza siderale, presto o tardi, si viene inevitabilmente risucchiati nella nostra storia personale e in quella di tante altre persone alle quali si finisce con l’essere legati dalle circostanze e che ci segnano fatalmente e profondamente.
«Vorrei davvero poterti dire un’altra cosa, ma poiché pretendi la verità… Ebbene, l’avrai».
All’improvviso mi viene l’impulso di troncare tutto, di pregarla di tacere, di prendere commiato. Ma lo sopprimo.
«Per me doveva essere giusto ciò che era giusto per il governo,» esordisce con voce ferma «e non avevo il diritto a pensieri, opinioni o sentimenti di ordine personale. Avevo invece il dovere di obbedire senza discutere agli ordini superiori, e se questi ordini prevedevano di soffocare nelle camere a gas milioni di ebrei io ero pronta a collaborare. Per cui, credimi, non potevo assolutamente permettermi la minima debolezza nel confronti di mamme o bambini. Quando vedevo i più piccoli entrare nel bunker, l’unica cosa che riuscivo a pensare era: ecco dei marmocchi giudei tolti di mezzo, ecco dei neonati che non diventeranno mai disgustosi ebrei adulti».
Si arresta, combatte contro l’incipiente tremore della mascella, poi decide di ignorarlo e prosegue. È molto forte, in questo momento. Mi getta uno sguardo chiaro e diretto: «Io ero convinta della giustezza della soluzione finale, di conseguenza assolvevo i miei compiti con grande impegno e con persuasione. In seguito mi hanno trattata alla stregua di una criminale, ma anche durante la detenzione non ho mai smesso di sentirmi fiera, e degna, di essere appartenuta alla Germania del nostro grande Führer… Lo sai che a Birkenau leggevo Kant?».
Le brillano gli occhi. Si porterà i propri errori nella tomba, penso con un brivido.
«Il mondo non ci capiva,» aggiunge con voce ancora inasprita dal rancore «e alla fine tutti hanno concorso ad annientarci».
Mi guarda con un rammarico che si direbbe sincero.
«Se hai sperato che avessi cambiato idea, mi dispiace doverti deludere. Io resto ciò che ero».
(Helga Schneider, Lasciami andare, madre)
La verità chiede sempre un prezzo troppo alto da pagare. Rimanere faccia a faccia con noi stessi, con quello che siamo, con tutto quello che credevamo di essere e non siamo, con l’immagine che si riflette e non è quella che avevamo visto e anche quando sapevamo già, sembra quasi che accettare la realtà delle cose risulti sempre di estrema difficoltà e se questo vale per noi, figuriamoci per gli altri. Accettare chi ci sta di fronte è come scalare una montagna infinita e se la verità di una madre inaccettabile ti si consegna nuda e cruda, quasi facendoti il favore di dire le parole più ripugnanti per renderti più facile odiarla, non è così semplice. Perché anche l’odio mette in gioco tutto te stesso, per odiare devi comunque affrontare la tua parte oscura e il fatto che nella natura umana ci siano tanta inumanità, rapacità e crudeltà travestite di ideologie, di dogmi, pilastri dell’apparato inconsistente eppure solidissimo del credere in qualcosa a tutti i costi, per dare un senso alla nostra esistenza.
È come se si lacerasse un velo. Ora la nostra storia è tutta qui. La storia mancata di una madre e di una figlia. Una non storia.
Lasciami andare, madre.
E se il significato fosse sempre un po’ più in là? C’è sempre qualcos’altro oltre a ciò che vediamo e, forse, proprio in quel vuoto che sentiamo dentro risiede l’essenza di ciò che siamo.

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